di Lucinia Speciale
La rete e i social network ci hanno riportato indietro agli anni Settanta, quando ogni questione culturale era propiziata da un appello. Quotidianamente le caselle di posta elettronica sono raggiunte da sollecitazioni di tutti i tipi, che vanno dall’invito a sostenere una legge per la sicurezza alimentare alla difesa di un sito archeologico. Si è creata anche una piccola gara ad accaparrarsi le firme più in vista. Verrebbe da pensare che gli intellettuali italiani trascorrano buona parte del loro tempo a schierarsi. Dopo qualche decennio di bonaccia e disimpegno è comunque un dato consolante. L’impegno civile è un segno di vitalità.
A volte però si ha l’impressione che dietro un buon principio, come quello della libertà di ricerca, possano crearsi equivoci. Uno di questi è quello ingenerato dalla proposta “Fotografie libere per i Beni culturali”, che ha raccolto diverse migliaia di firme e molti autorevoli interventi a sostegno, tra questi un’interrogazione parlamentare e numerose prese di posizione pubbliche da parte di studiosi e addetti ai lavori. Sebbene abbia una certa attitudine a sottoscrivere gli appelli, dopo un’attenta lettura della premessa che introduce il testo non vi ho aggiunto la mia firma. Condivido invece senza riserve i contenuti della posizione che l’associazione Bianchi Bandinelli ha assunto, in apparente contrasto con la sua vocazione a sostenere l’esigenza di rendere la cultura accessibile a tutti.
Può non piacere, ma il principio della libera ripresa che l’Art bonus garantisce sui beni custoditi nelle collezioni dello Stato non può essere esteso ai beni archivistici e librari, senza quelle minime limitazioni che attengono alla loro particolare qualità di manufatti.
Richiamare questa preoccupazione, nel momento in cui si discute se e come consentirne un più ampio diritto di ripresa è forse un po’ pedante, ma cerca di tenere insieme le esigenze di tutti; non ultime quelle di quanti – tra qualche generazione – potrebbero avere necessità di maneggiare carte d’archivio e libri a stampa di epoca moderna, che sfortunatamente sono molto delicati, e che sottoposti alla pressione di utenti inesperti o poco avvertiti rischiano di non sopravvivere a tanta sete di conoscenza.
Sono stata agli Uffizi l’ultima volta nel gennaio 2014 e ho visto cosa può produrre la smania di portarsi via un’immagine moltiplicata per mille. In certe sale si era abbagliati dai flash. Sarebbe vietato, ma come possono due custodi contrastare la pressione di una cinquantina di utenti determinati a portar via un’immagine? E come l’eccesso di umidità determinato dal numero delle presenze, anche la sovraesposizione luminosa provoca danni. Certo, carte d’archivio e manoscritti hanno utenti potenziali più ridotti, ma cosa accadrebbe in una qualunque sala manoscritti se tutti i lettori – tutti perché di questo si parla – chiedessero contemporaneamente di riprodurre senza alcun vincolo il materiale che stanno consultando? Chi potrebbe garantire, con l’attuale personale di sala, che per ottenere una ripresa leggibile manufatti fragili e delicati non siano esposti al pieno sole? Per provocare danni irreversibili alla carta non c’è necessità di ricorrere al flash, basta la luce naturale, come sa o dovrebbe sapere chiunque si sia occupato di restauro. E’ vero che tablet, smartphone e programmi di correzione consentono riprese di una certa qualità senza utilizzare il flash, ma moltiplicando il numero delle operazioni di ripresa il rischio esiste.
Nel dirimere la questione si dovrebbe ragionare anche in termini di democrazia. Consentire le riprese personali a chi abbia mezzi propri non significa garantire un diritto a tutti, ma solo a quelli che possono permettersi uno strumento relativamente costoso.
Una soluzione intermedia potrebbe esserci: quella di lasciare un margine di autonomia ai funzionari tecnici che danno l’autorizzazione alla ripresa, ai quali oggi è comunque demandato il compito di consentire o meno la riproduzione fotostatica e fotografica. Verificato che l’utente sia in grado di maneggiare il documento e dotato di un’attrezzatura adeguata, concedendo l’autorizzazione alla ripresa si potrebbe chiedere a chi la realizza per la prima volta di lasciarne a disposizione una copia alla sede di conservazione.
In questo modo si otterrebbero due vantaggi.
a) Si avrebbe a disposizione, senza oneri per la comunità, una banca di immagini più moderna di quella che lo stato oggi possa permettersi di realizzare, monitorando anche lo stato di conservazione dei documenti riprodotti, soprattutto di quelli molto richiesti. Ho fatto parte dell’équipe di studio che ha accompagnato il restauro di uno straordinario cimelio del VI secolo. Nell’arco del suo ultimo secolo di vita l’opera ha subito un degrado molto rapido; avere avuto a disposizione una buona documentazione fotografica, e cronologicamente classificabile, si è rivelato un elemento prezioso per circoscrivere i tempi del degrado.
b) Si avrebbero delle riprese da mettere a disposizione di quanti lo smartphone o il tablet di ultima generazione non lo possiedono o non lo sanno usare. Oltre ai nativi digitali, frequentano archivi e biblioteche anche persone che non sono in grado di impadronirsi di quel minimo di manualità e competenze necessarie a produrre immagini di qualità, ma che possono forse utilizzarle. Mettere a disposizione i materiali di studio potrebbe essere un bell’esempio di condivisione delle conoscenze, soprattutto da parte di chi frequentando materiali documentari per lavoro ha o dovrebbe avere consapevolezza di quanto siano delicati.